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Quando si tratta di arresto cardiaco ogni secondo conta e la vera differenza la fa la rapidità con cui viene iniziata la rianimazione cardiopolmonare, non tanto chi la esegue. È quanto emerge da un importante studio presentato al congresso ESC Acute CardioVascular Care 2025.

La ricerca è frutto del lavoro di un team coordinato dalla Prof.ssa Aneta Aleksova, cardiologa e docente del Dipartimento di Scienze Mediche dell’Università di Trieste e dell'Azienda Sanitaria Universitaria Giuliano Isontina. Il gruppo di studio è parte integrante della Struttura Complessa di Cardiologia, diretta dal Prof. Gianfranco Sinagra, e ha visto il contributo della Dott.ssa Alessandra Lucia Fluca, assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze Mediche dell’Università di Trieste, e del Dott. Andrea Perkan, cardiologo interventista della medesima Struttura Complessa di Cardiologia.

Lo studio ha analizzato 21 anni di dati (dal 2003 al 2024) relativi a 3.315 pazienti colpiti da infarto miocardico con sopraslivellamento del tratto ST (STEMI), una forma particolarmente grave di attacco cardiaco, in cui un'importante arteria coronarica risulta completamente bloccata, impedendo l’afflusso di sangue a una parte del cuore. Tra questi pazienti, 172 hanno subito un arresto cardiaco extraospedaliero (OHCA) e 44 di loro hanno ricevuto manovre di rianimazione cardio-polmonare (RCP) da parte di persone che si trovavano nelle vicinanze.

La risposta urgente è decisiva 

I risultati parlano chiaro: ogni 5 minuti di ritardo nel ritorno della circolazione spontanea (ROSC) aumenta del 38% il rischio di morte in ospedale. Anche una lieve riduzione della frazione di eiezione del ventricolo sinistro (un indicatore della funzione cardiaca) o l’aumento dell’età sono associati a un incremento significativo della mortalità.

«Abbiamo osservato che, indipendentemente dal fatto che a praticare la rianimazione cardiopolmonare fosse un soccorritore professionista o un passante, l’elemento determinante era la rapidità con cui iniziava la rianimazione», spiega la Prof.ssa Aleksova, sottolineando il valore della prevenzione attiva. «È fondamentale sensibilizzare la popolazione e promuovere corsi di rianimazione cardiopolmonare e utilizzo del defibrillatore. Anche un intervento imperfetto, se tempestivo, può salvare una vita. Meglio agire subito che attendere i soccorsi senza fare nulla».

Un trend positivo, ma ancora insufficiente

Lo studio mostra un netto miglioramento nel tempo: la percentuale di RCP eseguita da astanti è passata dal 26% nel periodo 2003–2007 al 69% nel quadriennio 2020–2024. Tuttavia, considerando che circa l’80% degli arresti cardiaci avviene in ambito domestico, il coinvolgimento del pubblico resta cruciale.

Nonostante i tempi medi di ROSC siano più lunghi per gli interventi da parte di passanti (20 minuti contro 5 nei casi gestiti da operatori sanitari), le probabilità di sopravvivenza a lungo termine non differiscono. Questo suggerisce che anche un intervento da parte di persone comuni, purché tempestivo, può avere un impatto salvavita comparabile a quello dei professionisti.

Un appello alla formazione pubblica

L’indagine segnala inoltre che chi riceve RCP da astanti è più frequentemente sottoposto a intubazione endotracheale (91% contro 65%), indicando una gestione clinica più intensiva. Ma l’elemento chiave resta il tempo. A parità di altri fattori, un intervento tempestivo può fare la differenza tra la vita e la morte.

Lo studio rilancia un messaggio semplice ma urgente: formare più persone alle tecniche di rianimazione di base (BLS) è una priorità di salute pubblica. Perché ogni minuto conta. E chiunque, con la giusta preparazione, può fare la differenza.